Il rancio freddo

Il rancio freddo VITA D’OSPEDALE
Viene chi viene: chi viaggia per ospedali non può scegliersi il compagno di strada. Un lettino si fa libero e subito incominci ad almanaccare: e adesso, chi ci metteranno 11? Quella volta mi ci misero un bel vecchio, boscaiolo della montagna umbro-marchigiana che, visto di profilo, somigliava tutto a Vittorio Emanuele III. Parlava pochissimo Duro d’orecchio e ignorando tutti i conforti e gli sconforti del vivere moderno e urbano, teneva in grande allarme ed ilarità l’ospedale. Era l’ora del caffelatte, e quello reclamava salsiccia e vin bianco. Scambiava il barbiere per il primario, e al primario raccomandava di fargli un buon contropelo. Sbagliava tutte le porte; una volta, di notte, non riuscendo a ritrovare la via del ritorno finì per andarsi a infilare nella camerata delle donne. Ne fu ricacciato da una tempesta di strilli. Quando fu ricondotto al suo letto, mogio come un can bastonato, cercai di confortarlo esortandolo a maggior prudenza, in vista di future imprese da dongiovanni. Generalmente, le facoltà mentali del mio vicino di letto erano date per svanite; a me, invece, che l’osservavo da tempo, sembrava un delizioso sornione che dall’alto d’un suo stupefatto e divertito pianeta stesse curiosamente contemplando e commiserando. Il mio nottivago compagno di viaggio non solo mostrò di gradire il tipo dell’approccio, ma si liberò a confidenze preziose che mi aprirono un pertugio sull’orizzonte dei suoi malcompresi corrucci. Quando gli dissi che somigliava al vecchio re, mi fece notare la differenza: anche lui aveva fatto la guerra, l’altra guerra. Ma non era mai scappato; l’avevano fatto prigioniero gli austriaci, e in prigionia ci aveva rimesso tutti i denti, a causa della « galletta » troppo dura. Trapassando poi da ricordi di gastronomia militare a ricordi più freschi e di carattere civile, mi sottopose una bruciante questione, alla quale non seppi e non so tuttora dare una risposta convincente: come mai, mi domandò, quand’era in guerra, sessant’anni fa, il rancio gli arrivava caldo fin nelle prime linee, e adesso ch’era ospite d’un grande complesso ospedaliero di Roma non gli era ancor capitato di mangiare un piatto di minestra che non fosse fredda e scotta? Se sull’Adamello le minestre arrivavano calde, e al Policlinico, più di mezzo secolo più tardi, fredde, segno che qualcosa è accaduto nell’arte d’organizzare la vita delle comunità: s’è perduta per la strada qualche conoscenza tecnica oppure, peggio, siamo andati paurosamente indietro nel costume, e cioè nel modo di concepire il rapporto tra la società efficiente e i suoi membri impediti, malati, emarginati e tutti coloro insomma che non sono in grado di far valere, 11, subito e con forza, le proprie ragioni? L’inquietante interrogativo postomi dal vecchio boscaiolo, cavaliere di Vittorio Veneto, mi è tornato alla mente alcune settimane fa leggendo la notizia d’un modesto, patetico sciopero avvenuto a Napoli, nel reparto urologico dell’ospedale « Cardarelli »: novanta degenti, si leggeva, si erano decisi al rifiuto di cibo e di bevanda in segno di protesta per la scadente qualità dei cibi e per il modo con il quale essi venivano serviti. Circa il primo punto, la scadente qualità dei cibi, pare sia cosa ammessa, scontata e addirittura legittimata da una robusta tradizione che investe tutte le collettività astrette alla dilemmatica alternativa del mangiar quella minestra oppure saltar quella finestra. L’Italiano, quando va in caserma, in carcere o in ospedale, non s’illude certo che lo tratteranno a torte e a tortelli. C’è una parte considerevole del nostro canzoniere popolare dedicata alla situazione di permanente disguido in cui versa la gastronomia castrense (qui basti cogliere un fiorellino: « Alla mattina c’è il caffè / ma senza zucchero / perché non c’è »). E’ ben passata ai proverbi la figura del colonnello che ispeziona il rancio alla truppa, e interroga la recluta («Che te ne sembra del vitto? », « Sano e abbondante! »); ma la scena ha il sapore del bon mot, e rafforza l’idea che la gente s’è fatta intorno alle mense di impianto coattivo che siano incapaci di provvedere e di concepire alimentazione se non di tipo penitenziale. E il peggio è che tutto ciò non fa scandalo, e appare invece del tutto naturale. In una trasmissione televisiva del 27 maggio scorso, nella rubrica « Orizzonti della scienza e della tecnica », ispirata alle mie esperienze ospedaliere, è stato mostrato a milioni d’italiani uno scampolo di camerata femminile al Policlinico di Roma nell’ora dell’arrivo del vitto. Esso appariva costituito di pastasciutta, pollo, patate arrosto. In coro, tutte, senza eccezioni, le intervistate mostrarono disgusto per quell’apparizione, affermando che si doveva trattare d’una messinscena: il pasto ordinario, cioè in assenza di telecamera, era di tutt’altra specie e tutt’altro aspetto. Gli aggettivi adoperati per qualificarlo furono: immangiabile (sette volte), cattivissimo, non buono, pessimo (tre volte). Nell’occasione furono intervistati anche il direttore della clinica radiologica, prof. Carissimo Biagini, e il prof. Franco Mandelli, direttore del reparto di ematologia: il primo definì « indegno, non soddisfacente », il vitto servito ai degenti, e il secondo « letteralmente tragico ». L’indomani della trasmissione m’aspettavo di vedere il Policlinico circondato da carabinieri e agenti di polizia; le cucine invase da ispettori della Sanità, della Regione, dell’Università (molte cliniche dipendono dalla facoltà medica), dell’amministrazione degli Ospedali Riuniti di Roma sotto la cui responsabilità ricade la gestione della mensa. Macché carabinieri, agenti e ispettori! Tutto continuò come prima, e anche peggio, secondo quel che mi riferiscono amici colà tuttora degenti. Sembra insomma che il Policlinico, punto nel vivo dalla pubblica denuncia, abbia voluto dimostrare non solo la perfetta liceità del malmangiare ospedaliero, ma l’inesistenza di un limite al malcuocere, malservire, mal comprare sul mercato. Può darsi, ma non credo, che il Policlinico di Roma (quattromila posti-letto, una dimensione mostruosa secondo ogni seria valutazione) rappresenti un caso estremo; ma da ciò che sento in giro, e da altre mie esperienze ospedaliere, la tentazione di rifilare al malato la partitella di merce scadente affiora purtroppo dappertutto. Persino all’arcispedale ferrarese di Sant’Anna, del quale ricordo con gratitudine memorabili pastasciutte, ci portarono un giorno certe mele vizze e piccolissime; un geometra, che era coricato sul letto accanto al mio, inforcò gli occhiali per guardarle, le soppesò e cominciò a gridare: « Ma come, a Ferrara, nella capitale europea della frutticoltura, siete riusciti a trovare della roba così! Queste sono mele che anche l’Aima rifiuta! » (l’Aima è l’azienda che acquista e distrugge le eccedenze agricole). Il fatto è che gli ospedali sono diventati grandi aziende Ja cui ragione sociale, il malato, costituisce il protagonista silenzioso e inerme, al quale, nemmeno per mera finzione, si concede di guardare nella borsa della spesa. La recluta, il carcerato hanno diritto d’interloquire sul vitto; il degente no: sembra che per lui, con l’aprirsi della malattia, si apra ope legis una dolente stagione di diritti civili e gastronomici conculcati, e che sull’ineluttabilità ed opportunità di conculcarglieli siano tutti d’accordo, le istituzioni e persino l’opinione pubblica. In questo quadro si colloca, a mio avviso, il secondo punto dello struggente sciopero dei degenti napoletani relativo al « modo » di servire i pasti in corsia. Ma il tema investe problemi troppo delicati di civismo e di morale: preferisco riservarmelo per altro articolo.
Gigi Ghirotti