Gigi Ghirotti

Gigi Ghirotti nasce a Vicenza il 10 dicembre 1920. Gli anni della sua infanzia e giovinezza sono simili a quelle di molti altri ragazzi che nel Veneto tradizionalista e cattolico vivono quegli anni gravidi di oscure tensioni e di foschi avvenimenti. Dopo gli studi classici, entra alla Facoltà di Lettere, ma la guerra interrompe i suoi studi.

Biografia

Si arruola volontario negli alpini, perché segue l’esempio e l’impegno morale di un amico, Cesare Bolognesi, che gli aveva detto tempo prima: «Come studenti non abbiamo il diritto di separarci dal nostro popolo. Noi dobbiamo stare con l’operaio e con il contadino là dove l’operaio e il contadino sono chiamati a soffrire». E come lui, anche Gigi Ghirotti va a fare il soldato semplice in mezzo alla gente semplice.

Nel settembre del 1943 si aggrega alle formazioni partigiane. Sul Settimanale Epoca, Guido Gerosa scriveva: «A Vicenza il tenente Gigi Ghirotti dice ai partigiani: la mia coscienza civile è dalla vostra parte, ma siccome dopo tante sofferenze sono contro la guerra, per coerenza non posso più prendere in mano un mitra. Ho questa vanga però, e condividerò la vostra sorte impugnandola fino alla liberazione». I partigiani lo accettano con la sua vanga.

Ritornato borghese, inizia la sua carriera giornalistica al Giornale di Vicenza nel 1945, per poi passare a La Stampa di Torino e a l’Europeo, poi di nuovo a La Stampa. «Sono sempre stato il giornalista dei poveri» commentava Gigi Ghirotti. Il suo direttore, Giulio De Benedetti, insisteva perché seguisse le cerimonie e i fatti mondani ma lui si è sempre tirato indietro.

Vita da scrittore

Uomo colto ed intelligente, capace di captare i segnali provenienti dalla società civile, Gigi Ghirotti nella sua carriera, oltre che giornalista è stato anche scrittore e saggista. Nel 1963 pubblica Italia mia benché (Ed. Comunità), che non è stata soltanto un’indagine molto acuta sulla realtà italiana negli anni del miracolo economico, ma anche uno sfogo di chi ama una terra e la vorrebbe migliore. Nell’anno precedente aveva condotto un’inchiesta sulla condizione del giudice in Italia, con il libro Il Magistrato (Vallecchi, 1962). Il successo fu immediato. Nel 1966 pubblica un’analisi sociologica sulla condizione del pastore e del bandito con il titolo Mitra e Sardegna (Longanesi, 1968).

Questi ed altri lavori gli hanno fatto vincere una serie di premi giornalistici come il “Saint Vincent”, il “Marzotto”, il “Premio Sardegna”.

Nel 1970 sempre con Longanesi, pubblica Rumor nella collezione Gente famosa, diretta da Giovanni Grazzini. Il libro è una fantastica occasione per compiere un viaggio nella memoria, nel ricorso degli anni più belli, della nostalgia evocativa di un mondo ormai scomparso. Dicono che per conoscere a fondo Gigi Ghirotti bisogna leggere questo libro, perché lo ha scritto con l’anima e col cuore specchiandosi nei propri stati d’animo, nelle proprie radici, nella propria identità.

La malattia

Nel 1972, a poco più di cinquant’anni, gli fu diagnosticato un linfoma maligno, il morbo di Hodgkin. Non si arrende e per due anni lotta con la malattia, sottoponendosi volontariamente (avrebbe potuto usufruire, come giornalista, di un’assistenza sanitaria particolare) alla trafila dei ricoveri, delle lunghe degenze, delle attese nelle strutture pubbliche ospedaliere.

Lì si rende conto di essere un “malato tra i malati” e si ricorda che come giornalista ha il dovere di narrare agli altri la sua esperienza, di offrire alla lettura e alla riflessione episodi salienti e in alcuni casi tragici descrivendo tutti gli aspetti della propria esperienza di malato per il mondo dei sani: per questo, ad esempio, volle provare ciò che può accadere ad ogni persona “normale” che non abbia la possibilità di rifugiarsi al di dentro di costose strutture private. Il segreto era vivere con la gente e far parlare le persone.

Gigi Ghirotti volle vivere fino in fondo la sua malattia. 

“Restando giornalista fino all’ultimo momento, senza alzare mai bandiera bianca, rese un’eccezionale testimonianza umana e trasformò la sua battaglia contro il cancro in lucido impegno civile. Nascono così gli articoli su “La Stampa” e due memorabili trasmissioni televisive, che commossero straordinariamente l’opinione pubblica, in cui apparve come “inviato nel tunnel della malattia”. 

«Ho un cancro e lo so, parliamone insieme» disse ai telespettatori una sera, del lontano 27 maggio 1972, nell’ambito della trasmissione televisiva in onda sul secondo programma tv Orizzonti – l’Uomo, la Scienza, la Tecnica rubrica a cura di Giulio Macchi. Gigi Ghirotti riuscì a trasformare quell’agghiacciante confessione in strumento per denunciare l’isolamento dei malati, l’insufficienza delle strutture sanitarie, le carenze dell’assistenza pubblica.

In queste crude verità era il dramma, per Gigi Ghirotti, non nel male che osava nominare e contro cui lottò fino agli ultimi giorni senza paura. «Se ce la metto tutta a combattere mi sento vivo, ed è bello vivere», diceva, commentando la lunga odissea negli ospedali pubblici, scelta «non per vocazione di martirio, ma perché i momenti decisivi della propria esistenza vanno vissuti come e dove li vive la stragrande maggioranza dei connazionali».

“Mi trovo impegnato in una partita difficile, su terreno fangoso, con un avversario che è furbo e anche sleale. Ma non sono solo” (Gigi Ghirotti)

Parlando del “lungo viaggio nel tunnel della malattia”, Ghirotti esprimeva al suo amico Giovanni Giovannini, la soddisfazione per il fatto che esso costituisce una valida informazione sui malati e i modi di curarli. «E mi conforta l’idea – aggiungeva – che esso possa essere utile in qualche modo: mettere una malattia al servizio di qualche cosa, renderla, malgrado tutto, utile al prossimo, questa mi sembra un’impresa che mi ha convinto a fare e che è bene sia stata fatta».

Si era reso conto innanzitutto che la comunità civile, le famiglie degli ammalati, gli operatori sanitari, non possono più considerare il malato grave come un peso, un prigioniero, un inferiore nei confronti del quale sono permessi comportamenti che sarebbero inconcepibili verso altre categorie di persone. L’opinione pubblica deve essere mobilitata in questo senso, mantenuta vigile ed accorta, informata e stimolata a non dimenticare.

Tutti gli articoli elaborati da Gigi Ghirotti, in quel periodo, sono di indignazione per la condizione in cui è tenuta la “casta degli ammalati”, e soprattutto di quegli ammalati, appartenenti alle classi meno abbienti, che patiscono la pressione dell’emarginazione sociale, della povertà culturale, dell’indigenza economica, in una struttura come quella ospedaliera, di tipo carcerario, che funge da acceleratore dei fattori di degradazione.

L’indignazione si traduce in denuncia degli abusi, di stoltezze e cattiverie proprie d’una gestione ospedaliera spesso inumana. E la denuncia apre prospettive di lotta per i diritti civili, indica strade che potrebbero portare alla progressiva razionalizzazione di strutture, organizzazioni, professioni finalizzate, oltreché alla guarigione del malato, al recupero e alla salvaguardia della sua piena identità umana.

Soltanto in apparenza molti problemi sanitari sono di natura tecnica, sottolineava; questi possono avviarsi a soluzione dove siano inseriti in un’azione globale volta a liberare il caduto e il ferito dalle servitù in cui la sua condizione di minorità lo ha posto.

Per questo il “servizio” di Ghirotti, inviato nel mondo della malattia, è stato assai più duraturo di una semplice denuncia giornalistica di mali e carenze e non si è concluso con la sua uscita di scena.

 

Gigi Ghirotti muore a Vicenza nel luglio del 1974.