Il sollievo non è solo il fine della terapia del dolore, ma anche un mezzo per alimentare la speranza.
LA CURA DEL SOLLIEVO
Vito Ferri, psicologo, psicoterapeuta, sociologo. Coordinatore scientifico della Fondazione Gigi Ghirotti Onlus
“AUS L’Ancora nell’Unità di Salute” Rivista bimestrale di pastorale della salute. Anno XLIII n. 4, 2021
Dolore, malessere, dispiacere, afflizione, angoscia, disperazione, desolazione, sono solo alcune delle forme della sofferenza. Essa è una condizione inalienabile dalla vita, funzionale, entro certi limiti alla conservazione della vita stessa. Ogni minaccia temporanea o duratura alla sicurezza, alla integrità parziale o globale dell’essere vivente può generare sofferenza. Ogni impedimento o pericolo che riguardano il movimento o l’espansione nell’ambiente (in senso ampio), che minacciano la possibilità di reagire agli stimoli ambientali, di nutrirsi, di conservare e reintegrare la propria forma e costituzione fisica e di riprodursi, inducono vari gradi di sofferenza che, a seconda del livello evolutivo della creatura, può essere vissuta o presentarsi fenomenologicamente in modo diverso. Nell’essere umano autocosciente la sofferenza assume forme complesse e si manifesta anche a livello socio-culturale, economico, spirituale. Tanto è stato scritto, detto, studiato, scoperto sulla sofferenza da varie discipline umanistiche e scientifiche, ma anche dal senso comune e tanto resta ancora nel mistero. Spiegare la sofferenza, darle un senso, domarla, addomesticarla, controllarla, prevenirla, persino strumentalizzarla e sfruttarla per ottenere un vantaggio per sé a discapito dei sofferenti o per ottenere il controllo di singoli individui come di interi popoli, è stata la molla che ha motivato a puntare su di essa i riflettori della riflessione filosofica, della ricerca scientifica, medica e farmaceutica, dell’economia, delle religioni, della teologia, della letteratura, della psicologia e psicoterapia, dell’antropologia culturale, della politica, della pedagogia e della sociologia.La sofferenza non è comunque l’argomento centrale di questa mia riflessione animata da esperienze vissute nel mio lavoro di psicologo-psicoterapeuta in ambito oncologico, ma è necessario partire da essa perché essa è inseparabile e legata a doppio filo semantico e fenomenologico al tema in questione, ossia il sollievo. Affrontare il tema del sollievo vuol dire tentare di aprire un passaggio nel fitto mistero della sofferenza. È un tentativo positivo, ossia affermativo, di gettare lo sguardo oltre, cioè al momento in cui è possibile allentare la morsa della sofferenza e vedere «uno spiraglio di luce». Riflettere sul sollievo e raggiungerlo o aiutare a sperimentarlo vuol dire liberarsi, affrancarsi dalla sofferenza; non una liberazione radicale e definitiva – che non è data a nessuna creatura vivente – ma la “sospensione della pena” che può essere acuta o cronica, intensa o lieve, improvvisa o dilazionata nel tempo. Questa mia riflessione vuole essere, in ultima analisi, un contributo alla comprensione della complessità bio-psico-sociale e spirituale dell’esperienza intima e individuale del sollievo, superando l’equazione riduttiva “sollievo = assenza del dolore fisico”, e indicando una possibile strada da percorrere insieme alla persona nel territorio della cura della sofferenza, ma anche della poco conosciuta “cura del sollievo”.
Definire il sollievo
Il sollievo è un vissuto piacevole, esso si colloca tra i concetti complessi, la cui definizione diventa un procedere per approssimazioni, che mette alla prova la nostra capacità di comprensione. Comprendere vuol dire percepire connessioni, afferrare intuitivamente e mettere insieme con un processo di attribuzione di significato frammenti e contenuti di un’esperienza (K. Jaspers, 1964). Comprendere il sollievo non è affatto più semplice della comprensione della sofferenza. Anche il sollievo è attraversato dallo stesso mistero della sofferenza. Il sollievo e la sofferenza sono entrambi dei “vissuti”; prima di procedere è allora opportuno fare un po’ di luce sul concetto di vissuto che utilizzerò spesso in questo testo. Il vissuto può essere considerato come la sintesi finale,percepita dalla persona che lo sperimenta, dell’interazione di sensazioni, immagini mentali, percezioni, ricordi, tratti di personalità, valori, atteggiamenti spirituali, atteggiamenti sociali, emozioni, umore, gesti, stato fisiologico, cultura di appartenenza (V. Ferri, 1998).Il vissuto è dunque l’esperienza del corpo inteso non solo come organismo fisico, ma – in senso più ampio – come fenomeno psicofisiologico fatto di materia, di cellule vive, di organi, di pensieri, di significati, di spiritualità, di relazioni e di interazioni (U. Galimberti, 1998; R. Venturini, 1995). Il vissuto è ciò che un individuo percepisce quando il suo corpo è, per così dire, immerso in un’esperienza. Se il vissuto fosse solo un fatto dell’organismo sarebbe riducibile a sensazione, che invece è solo una delle sue componenti. Il vissuto pervade la coscienza dell’individuo che “vive un’esperienza”. Due persone immerse nella stessa esperienza non sperimentano due identici vissuti. Ciascuno proverà il suoproprio vissuto; unico e irripetibile anche per la stessa persona che lo sperimenta. Saranno gli sforzi della cultura di appartenenza e l’esigenza di comunicare, di condividere e ricordare le esperienze a far percepire come apparentemente sovrapponibili i vissuti di diversi individui. Quando l’oncologo comunica a Maria che dopo l’intervento di mastectomia e due anni di terapie il tumore è regredito fino a scomparire, il sollievo che sperimenterà Maria sarà diverso dal sollievo che vivrà Giorgia curata con identico protocollo, per un tumore classificato come quello di Maria. Entrambe vivranno il sollievo, ma con modalità, intensità, implicazioni, significati e sviluppi anche molto differenti. Il sollievo è uno di quei vissuti umani che allorché si tenta di definire, di tradurre in termini operativi e descrittivi, esplode in un caleidoscopio di significati. Sarei tentato di definire tautologicamente il sollievo come “ciò che sperimentiamo quandoproviamo sollievo”. È per tutti noi immediato definirlo attraverso il racconto o la rievocazione di esperienze in cui lo abbiamo vissuto: il momento in cui abbiamo ritirato quelle analisi cliniche e non è risultata la patologia che temevamo; la volta in cui il professore all’esame ci ha fatto una domanda e abbiamo risposto esattamente; alla finale del campionato di calcio europeo quando l’Italia ha segnato il rigore della vittoria; quelle volte in cui al cinema o durante un concerto di musica classica abbiamo sedato un attacco di tosse insistente con una mentina; quando nell’arsura estiva abbiamo bevuto un bel bicchiere di acqua fresca; alla fine di un volo molto turbolentoin cui le ruote dell’aereo hanno finalmente toccato la pista. A questi esempi ciascuno ne può aggiungere una infinità, anzi, invito il lettore a pensarne alcuni in questo momento per meglio comprendere la fenomenologia del sollievo in sintonia col proprio vissuto, con la propria sensibilità e personalità. Una osservazione fenomenologica sostanziale ricavabile da ciascuna delle esperienze di sollievo è che esso è un vissuto del “dopo”: segue sempre uno stato di tensione, d’impegno e, in particolare, di sofferenza della persona intesa nella sua globalità spirituale, psichica, sociale, culturale e fisica. Non c’è sollievo senza che sia stato preceduto da un vissuto di sofferenza. Quindi per definire e comprendere (in senso anche empatico e fenomenologico) il sollievo, come detto sin dal principio di questa riflessione, è necessario partire dal vissuto di sofferenza.Socrate imprigionato e condannato a morte, dopo che gli viene liberata la caviglia dai ceppi e dalla catena, prima di bere la cicuta che lo ucciderà, grattandosi e massaggiandosi la caviglia esclama: “Per la catena, qui, alla gamba, poco fa, io sentivo dolore; ed ecco che ora sento piacere” (Platone, Fedone). La sofferenza può essere intesa come il risultato – in termini di percezione soggettiva – dell’accumulo e dell’impasto di bisogni insoddisfatti di tipo fisico (es. bisogno di liberarsi da uno stimolo che provoca dolore), affettivo-relazionale (es. bisogno di essere amato), cognitivo (es. bisogno di risolvere un problema), socio-culturale (es. bisogno di svolgere un ruolo attivo in società), spirituale (es. bisogno di dare un significato trascendente alla sofferenza). Scrive il cardinale Gianfranco Ravasi: «La sofferenza non è mai solo una questione fisica, ma coinvolge “simbolicamente” corporeità e spiritualità. Essa può contemporaneamente generare disperazione e speranza, tenebra e luce; può essere distruzione e purificazione; riduce alla bestialità (certe malattie sono umiliazione e sconfitta di ogni dignità umana) ma può anche trasfigurare, “distillando” come in un crogiuolo le capacità più alte, divenendo luminosità interiore e catarsi» (2000, p.3). La multidimensionalità della sofferenza è complementare a quella del sollievo. La stessa etimologia dei due termini rivela il loro legame semantico ed esperienziale e al tempo stesso la loro complementarità o divergenza, da non confondere con “polarità” od opposizione tra sollievo e sofferenza. “Sollievo” deriva dal latino sub- (sotto) levare (alleggerire, rendere lieve) e “sofferenza” dal latino sufferre composto da sub- e ferre (portare). Dunque il prefisso subaccomuna i due termini: l’essere in basso, soggetti alla forza di “gravità”, l’essere sotto. La divergenza è data dall’azione espressa dai rispettivi termini: nella sofferenza c’è una tendenza verso il basso, mentre nel sollievo la spinta è verso l’alto. La sofferenza ci “porta sotto”, ci schiaccia verso il basso, il sollievo ci alleggerisce, ci sgrava, ci porta dal basso verso l’alto. Il gesto figurato più corretto per questo sollevare non è tanto acciuffare dall’alto e tirare su come quando raccogliamo un oggetto dal pavimento, ma sostenere dal basso, farsi base di appoggio e portare in su l’oggetto come un carrello sollevatore. «E ti rialzerà, ti solleverà su ali d’aquila, ti reggerà», sono le parole di un canto cristiano ispirato al Salmo 90 che bene esprimono il senso del sollevare da sotto o appoggiandosi sopra a una base (fisica, relazionale o esistenziale) che solleva dal basso dalla condizione di sofferenza e porta verso l’alto. Giuseppe, ottantenne molto depresso per la morte della moglie avvenuta pochi mesi prima, un giorno durante un colloquio telefonico di sostegno psicologico nel mio lavoro presso il Centro di ascolto “Gigi Ghirotti”, mi ha fatto ascoltare la sua musica preferita: la colonna sonora di un film degli anni sessanta, e con voce incredibilmente animata e gioiosa, quasi eccitata, mi ha detto, mentre una vivace armonia si diffondeva nell’auricolare del telefono: «senti Vito, senti, ti avvolge e ti porta verso l’alto!». Giuseppe aveva voluto condividere alcuni minuti di sollievo, aprendo un varco alla luce e ad una ventata di aria fresca proveniente da un passato “sereno”, lontano dal suo cordoglio, quando ascoltava quella musica insieme a sua moglie.
Fenomenologia del sollievo
Il vissuto di sollievo è correlato positivamente all’intensità percepita dello stato di tensione, del dolore o della sofferenza che lo precedono. Tanto più intensa è la sofferenza quanto più grandesarà il sollievo da essa. La dimensione temporale è pure una variabile rilevante nella percezione soggettiva del sollievo. Infatti più rapida è l’attenuazione o la sedazione dello stato penoso o doloroso, più è probabile che la persona sperimenti un vissuto di sollievo e ne sia consapevole. Combinate insieme, entrambe le variabili possono portare ad un sollievo più intenso, piacevole, duraturo. Ricordo un episodio accadutomi mentre affiancavo il medico di terapia del dolore in un ambulatorio di una azienda ospedaliera per la cura dei tumori. Entrarono un signore intorno alla sessantina seduto in carrozzina e sua moglie che lo spingeva. Lui era affetto da un tumore in fase avanzata ed era già in cura presso l’ambulatorio. La pompa d’infusione collegata al catetere spinale aveva esaurito il farmaco oppiaceo e non avevano fatto in tempo a farla ricaricare. Il paziente appariva pallido, sudato, si contorceva su una carrozzina per il dolore emettendo un lungo e reiterato lamento. Il medico spiegò che avrebbe immesso direttamente nel catetere una dose di morfina sufficiente a sedare il dolore e che questo sarebbe passato in pochissimi minuti. Così fu. Il sollievo prese presto il posto del dolore. Ancora con la fronte imperlata di sudore, il paziente assunse sulla carrozzina una postura più rilassata, cercò lo sguardo della moglie inclinando la testa indietro e le sorrise. Anche la moglie provò sollievo e lo notai dal suo sorriso, dalle spalle che si abbassarono e da un energico sospiro. Poi il medico accolse le parole di gratitudine della coppia e, dopo una battuta che fece trasformare il sorriso in una risata di tutti noi presenti in ambulatorio, si raccomandò di non giungere mai all’esaurimento del farmaco nella pompa (che intanto aveva ricaricato). Il culmine del sollievo lo vidi però al momento dei saluti, una scena piena di significato simbolico: quel signore uscì sulle sue gambe spingendo la carrozzina vuota e la moglie dietro di lui. Il sollievo di questo paziente e di sua moglie fu irrompente come il primo raggio di luce alla fine dell’eclissi di sole, sia per la repentinità della cessazione del dolore,sia perché questo, da essere intenso e insopportabile,scese di intensità fino quasi ad azzerarsi. Soprattutto nel linguaggio parlato il sollievo può essere considerato in senso concreto e identificarsi con l’evento, la persona, il farmaco, la parola che oggettivamente e/o soggettivamente è percepito collegato da un nesso causale. In questo caso il sollievo è inteso come unarisorsa che se posseduta o raggiunta dalla persona sofferente aumenta la probabilità che la sofferenza venga percepita come attenuata o sospesa. Se per esemplificare ci limitassimo alla sola dimensione fisica del dolore, potremmo pensare al mal di denti che si attenua o scompare dopo aver preso una compressa di analgesico. La compressa in questo caso è la risorsa, è essa stessa “un sollievo” – oggettivato – per il mal di denti. Nella mia attività di formatore di volontari dico loro che un importante obiettivo da raggiungere è quello di essere percepiti come “sollievo” dalle persone assistite, almeno su un piano relazionale e di accompagnamento. Ricapitolando dunque, il sollievo è un vissuto piacevole e desiderabile di affrancamento, di liberazione o di allontanamento nello spazio o nel tempo di/da uno stimolo (interno o esterno alla persona) che provoca sofferenza o dolore. Lo stimolo può anche essere inteso come un “insieme” di stimoli o come un processo di stimolazione che si svolge in un certo periodo di tempo. Ad esempio: essere picchiati è uno stimolo fisico che provoca dolore, ma anche uno stimolo psicologico interno che induce sofferenza nella forma di senso di umiliazione o di vulnerabilità, oltre a intense emozioni spiacevoli. La natura dello stimolo è varia come varie e complesse possono essere le origini della sofferenza individuale. Lo stimolo o l’agente percepito soggettivamente o oggettivamente collegato e correlato al sollievo secondo un nesso causale diventa esso stesso “il sollievo” e ricercato successivamente per ritrovare l’esperienza di affrancamento dalla sofferenza edal dolore. Il vissuto di sollievo può essere sperimentato anche senza affrancarsi completamente da una condizione di sofferenza o di malattia. Si parla allora di sollievo “nella” sofferenza.Il sollievo non è una soluzione, un approdo esistenziale definitivo, ma una sospensione, una tregua, o almeno è percepito come tale. In inglese tregua, pausa, respiro (di sollievo) si traduce con il termine respite; questa parola è utilizzata nell’espressione respite care, letteralmente “prendersi cura che offre una tregua” per sollevare i care giver dallo stress dell’assistenza a una persona affetta da una malattia degenerativa in fase avanzata (es. demenza senile, Alzheimer,ecc.) o gravemente disabile. Il respite care avviene solitamente attraverso un ricovero breve (fino a 2-3 settimane) della persona malata in apposita clinica o struttura sanitaria oppure attraverso l’erogazione di cure domiciliari giornaliere e continue 24h/24h. L’arte di fare e far fare pausa, di sospendere, di introdurre “bolle d’aria”, vuoti (“vacanze” strictosensu) nella condizione, tempo, esperienza della sofferenza è fondamentale per il raggiungimento del sollievo. Per comprendere il carattere transitorio del sollievo ci può aiutare l’analogia con l’Inferno, il Paradiso e il Purgatorio della tradizione cristiana: l’Inferno e il Paradiso non sono i regni del sollievo, in essi tutto è compiuto e definitivo: non ci sono pause nell’essere beati o dannati. Il Purgatorio, al contrario – proprio per la sua transitorietà – è una realtà compatibile con il sollievo: qui si ricevono piccoli “sollievi” e “refrigeri” grazie alle preghiere di suffragio; solo qui aleggia la speranza di essere alleggeriti (sub-levare) dalla pena a cui si è sottoposti (sub-ferre). Senza speranza, infatti, il sollievo è un concetto svuotato della sua carica liberatoria: quando soffro posso sperare nel sollievo e al tempo stesso, quando provo sollievo, posso sperare che questo stato duri a lungo. Ecco dunque la complessità del sollievo: esso è l’elevazione dell’animo sofferente; è tregua, sospensione, parentesi, oasi, sosta, refrigerio, alleggerimento, liberazione; è allo stesso tempo conseguenza e fonte di fiducia e di speranza. Tutte le esperienze di sollievo già vissute mi parlano, mi dicono che è possibile, perché già accaduto, affrancarmi dalla sofferenza, e questo fa da base concreta al vissuto di speranza. Per educare alla speranza occorre iniziare dalla educazione al sollievo, sin da molto piccoli.
Il sollievo globale
Chi si occupa di cure palliative conosce bene un effetto collaterale psicologico e psichiatrico che può accompagnare una sedazione rapida del dolore fisico, ossia la comparsa dell’angoscia. Ci aspetteremmo un grande sollievo, invece non sempre accade, capita a volte che sia l’angoscia a dominare la coscienza della persona in fase terminale, spesso vissuta come angoscia di morte. La coscienza, che prima era totalmente occupata dal dolore, improvvisamente si svuota e questo vuoto anziché essere colmato dal vissuto di sollievo è invaso dall’angoscia. Questa reazione può essere prevenuta sela cura è globale, ossia se tiene conto delle altre dimensioni della persona e non solo della mera sedazione della componente fisica del dolore. Il controllo farmacologico o meccanico del dolore non necessariamente coincide quindi con un vissuto di sollievo globale. Come abbiamo già accennato parlando della sofferenza, il dolore, soprattutto quando è molto intenso, cronico o al termine della vita, è un vissuto che investe globalmente la persona. Cecily Saunders ha introdotto negli anni sessanta l’espressione “dolore totale” (1964) che la World Health Organization (WHOOMS) ha inserito in una sua fondamentale pubblicazione sul dolore del 1986. Ragionare e operare in termini di “dolore totale” significa considerare le dimensioni psicologica (relazionale, emotiva, cognitiva), socio-culturale e spirituale del dolore importanti quanto quella fisica. Questo vuol dire che ogni piano di trattamento e di cura che mira a sedare il dolore e a far sperimentare un vissuto di sollievo globalealla persona sofferente deve considerare più dimensioni possibili della persona umana: l’anatomia e fisiologia, le emozioni, le relazioni affettive, la cultura di appartenenza, le istituzioni sociali, la fede religiosa e l’universo simbolico di riferimento della persona. È molto chiaro a tale proposito il monito dell’autorevole bioeticista e filosofo Dietrich Von Engelhardt: «Se noi siamo in grado di definire il dolore solo sul piano biologico, nella terapia ci muoveremo soltanto sul piano biologico. Se noi invece comprendiamo il dolore come un fenomeno sociale, psicologico, sensato, anche nella terapia dovremo misurarci con queste dimensioni psicologiche e sociologiche. […] Quel medico che guarda al paziente nella pienezza della […] soggettività, farà bene a interpretare il dolore non soltanto sul piano fisiologico e nemmeno solo sul piano psicologico, farà suo anche il piano valutativo, i punti di vista normativi sul dolore, domanderà al paziente anche che cosa è per lui il dolore, come egli lo valuta e se questi, nonostante tutti i tentativi di alleviare il dolore […] non possa ricavare un senso dal dolore […].In questo dissidio tra il donare senso al dolore ed il superamento del dolore si trova l’intera medicina moderna e la storia della cultura» (1991).
Dare senso alla sofferenza
Lo psicofisiologo clinico Riccardo Venturini, si chiede se oggi, in epoca postmoderna, con il dilagare del disincanto e della secolarizzazione, sappiamo ancora dare un senso alla sofferenza: «Jung ci ricorda che non è la sofferenza in sé a essere particolarmente dolorosa quanto l’incapacità di dare ad essa un significato. […] Il dolore esige risposte e non consente rinvii: la vera questione di vita o di morte rimane sempre la lotta per dare senso alla sofferenza, per mettere una cornice al quadro del negativo, per contenerlo, circoscriverlo, dominarlo: ma il contenuto spesso preme, minaccia di debordare e dilagare in tragedia; la cornice deve venire allargata, per comprenderlo, ancora e di nuovo» (R. Venturini, 2000, p.4). Per millenni, l’uomo ha cercato di provare sollievo anche attraverso l’attribuzione di significato alla sofferenza. L’alcool, l’oppio, il giusquiamo e altre sostanze per sedare il dolore erano note, ma non tutti ne potevano disporre, erano tossiche e comunque erano scarsamente efficaci per dolori severi o cronici. Anticamente, per provare un vissuto di sollievo “nella” sofferenza e in particolare per le sue componenti psico-socio-spirituali, la sola possibilità di “cura” era quella simbolica e significante che Von Engelhardt definisce “filosofica e teologica”. «Il significato percepito del dolore modifica l’esperienza che l’individuo ha di esso» (C. Rossano, et al., 1990, p. 335) e modifica di conseguenza il vissuto di sollievo. Una forte cefalea sarà vissuta diversamente se la persona l’attribuirà a uno stato di forte tensione piuttosto che a un tumore cerebrale. Anche il sollievo dalla stessa cefalea sarà vissuto diversamente nei rispettivi casi di “cefalea tensiva” e “cefalea da compressione neoplastica cerebrale”. Il dolore indotto durante un rituale di iniziazione o di espiazione è vissuto diversamente se la stessa stimolazione dolorifica è invece crudelmente inferta in un contesto di tortura. Superato il rituale di iniziazione il vissuto di sollievo è certamente diverso da quello provato dal torturato quando il carnefice sospende la sua opera di offese e di sevizie. Inserire il dolore e la sofferenza in un universo simbolico, in una rete di significati socialmente condivisi, permette di attivare le componenti psicologiche, spirituali e culturali del sollievo. «È ormai evidente che attraverso l’esame e l’interpretazione dei particolari significati che una persona dà alla propria malattia [e sofferenza] è possibile rompere il circolo vizioso che amplifica lo stress e quindi il dolore […] La trama, le immagini e i simboli che strutturano la narrazione della malattia provengono dai modelli culturali e personali che aiutano a mettere insieme le esperienze in modi significativi e a comunicare in modo efficace questi significati» (L. Sandrin, 1995, p.76). La storia del dolore fino alle scoperte della medicina del XIX secolo è un susseguirsi di attribuzioni di significato e di interpretazioni filosofiche e teologiche: dalla interpretazione aristotelica del dolore come “passione”, alle elaborazioni filosofiche degli stoici e degli epicurei, dalla visione “salvifica” e “santificante” del dolore nel Cristianesimo medievale (sebbene Agostino avvertiva che «è vero che possiamo accettare molti dolori, ma non possiamo amarne nessuno»), all’interpretazione hegeliana del “dolore cosciente” come privilegio esclusivo dell’essere umano. Ancora oggi l’attribuzione di significato, non tanto quella che segue codici culturali condivisi o speculazioni filosofiche, quanto quella che si compie nell’intimo della persona, rappresenta un tentativo di ricercare momenti di sollievo nella sofferenza. Ma è un tentativo che può apparire quasi sovversivo o peccaminoso agli occhi degli altri e che, quindi, si compie in silenzio e in solitudine. La persona che cerca un significato alla propria sofferenza per ottenere sollievo, spesso si trova sola a lottare tra due fronti: contro il dolore che invade la sua coscienza e contro l’imposizione di significati che non sono i suoi e che non condivide, ma che invece sono scelti dagli altri o perché questi hanno paura o perché sono troppo centrati sui propri bisogni o interessi. La frase di san Paolo: «Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24), può essere di sollievo per una persona di fede profonda e che coglie in queste parole un significato trascendente, mentre può risultare molesta se non offensiva se si pensa di “somministrarla” con superficialità come un viatico consolatorio e di sollievo universale, valido per tutti o magari non appena si apprende, senza un minimo di empatia o conoscenza, che la persona che soffre è di fede cristiana. Il significato più efficace che dà sollievo è quello cercato, trovato ed elaborato dalla stessa persona sofferente. Pertanto è bene favorire nella persona la riattivazione della capacità di elaborare, di dar senso e di simbolizzare la sofferenza. Fonti possibili di significati possono essere: la storia di vita, la fede religiosa, la cultura di appartenenza. Ma non sempre ciò è possibile. La capacità di produrre o di elaborare significati è solitamente messa in crisi, confusa dalla malattia grave, dalla sofferenza e dal dolore assurdo, soprattutto se colpisce al termine della vita. Come sappiamo, la sofferenza invade ed occupa la coscienza e quest’ultima, essendo “l’organo del significato”,come la definiva lo psicologo austriaco Viktor Frankl, può essere molto difficile a una persona immersa nella sofferenza trovare un significato, soprattutto. In questi casi è lecito e umano che scatti nel sofferente un meccanismo di delega, di cedimento ai significati provenienti dall’esterno. È fondamentale sul piano etico, professionale e umano che chi si prende cura sia ben consapevole di tutto ciò e ne percepisca la responsabilità. Appartenere ad un comune universo simbolico o contesto culturale (religione, visione del mondo e filosofica, esperienza vissuta insieme) può essere di aiuto nell’offrire un “significato di appoggio” a chi soffre. La delega può però essere fonte di sollievo se fondata sulla fiducia (N. Luhmann, 2000). La persona sofferente può sceglieredi affidarsiall’abbraccio significante di un altro: una persona cara, ma anche un medico, uno psicologo, un infermiere o un volontario. La fiducia consente la semplificazione della complessità, la liberazione di energia sottratta ad emozioni paralizzanti, l’accettazione di significati della propria sofferenza provenienti dalla persona di cui ci si fida; la conseguenza di ciò può essere la sperimentazione di un vissuto di sollievo a volte anche molto intenso. La sofferenza significata può dunque aprire un varco al sollievo seppure nella sofferenza e non dalla sofferenza. Il sollievo sperimentato attraverso l’attribuzione di significato alla sofferenza, rappresenta un capitolo centrale dell’approccio psicoterapeutico di Viktor Frankl. Questo approccio è denominato logoterapia e l’idea centrale, semplificata al massimo, è che molte forme di sofferenza umana (quella psichica in particolare) hanno origine dal “vuoto esistenziale” o dalla mancanza di senso della vita. La logoterapia paradossalmente accompagna l’uomo a diventare “capace di soffrire”: unHomo patiens che per Frankl è «l’uomo che soffre e che, in virtù della sua umanità, è capace di innalzarsi e assumere un adeguato atteggiamento nei confronti della sua sofferenza» (1977b, p.81). Vi sono «delle situazioni in cui l’uomo può realmente trovare la propria compiutezza nel vero dolore, e solo in esso» (V. Frankl, 1972, p. 152). L’approccio della logoterapia è importante ai fini del discorso sul sollievo “nella” sofferenza perché ci aiuta a porre l’accento sul fatto che, pur permanendo in una condizione di sofferenza, l’uomo può realizzarsi in essa o per mezzo di essa. «Ciò che importa dal punto di vista medico – o meglio, dal punto di vista del malato – è l’atteggiamento che si assume di fronte alla malattia, la posizione che si prende. In una parola, ciò che conta è l’atteggiamento giusto, l’autentico e leale supporto di un vero destino. Il «come» l’uomo sopporterà una sofferenza inevitabile, racchiude una possibilità di significato dell’esistenza» (V. Frankl, 1977a, p. 82). Anche nelle condizioni più tragiche e nella sofferenza più atroce, l’homo patiens ha ancora la possibilità di continuare a vivere sensatamente. Tutto dipende dalla capacità o dalla possibilità di assumere un particolare atteggiamento che trasforma e “trasfigura” la sofferenza, anche senza azzerarla. La persona che si trova “suo malgrado” immersa nella condizione di sofferenza, ha diverse possibilità: «Può accettarla con calma o maledire se stesso e tutto ciò che lo circonda, può sopportarla eroicamente o crollare lamentandosi sotto il suo peso, può trovare coraggio e fiducia nel futuro o disperare per il suo difficile presente. […] La trasformazione in un fatto positivo è la trasformazione in qualcosa di valido, è la disponibilità a trarre il meglio dalle circostanze esistenti, a “strappare” anche all’infelicità un senso ed a realizzarlo» (E. Lukas, 1983, p 31). C’è un importante insegnamento del pensiero e della prassi terapeutica che ci ha lasciato Viktor Frankl e che possiamo applicare al nostro oggetto di studio: il sollievo è possibile anche nella sofferenza e può coesistere con essa, usando una metafora si può dire che il sollievo non è solo un nodo che si scioglie (sollievo dalla sofferenza), ma anche un nodo allentato (sollievo nella sofferenza). Naturalmente ciò stride con un concetto semplificato di sollievo “tutto o niente”, confuso con la gioia o ridotto a polo opposto della sofferenza. Il concetto di senso comune di sollievo è quello a cui la quotidianità ci ha abituato: il mal di testa che passa dopo aver preso una compressa, il sassolino tolto dalla scarpa, l’essere riusciti a salire in treno appena in tempo prima della sua partenza. Proviamo invece a domandarci quale sollievo possa sperimentare chi soffre senza tregua, chi soffre per una malattia in fase avanzata, chi si trova scaraventato esistenzialmente in una delle possibili condizioni di orrenda sofferenza (pensiamo alla condizione dei reclusi in un lager nazista, esperienza vissuta in prima persona dallo stesso Viktor Frankl). Anche in queste condizioni la persona può sperimentare il vissuto di sollievo. C’è pertanto una forma di sollievo che può coesistere, paradossalmente, con la sofferenza incessante, che permette alla persona di “galleggiare” e di “navigare” in un mare di sofferenza: è il sollievo che proviene dalla scoperta del significato della propria sofferenza. Esiste anche un caso particolare di sollievo che scaturisce dal dar senso alla sofferenza che assiste malati gravi prima o poi incontra. Sono situazioni apparentemente paradossali in cui la sofferenza in qualche modo trae significato, e quindi sollievo psico-spirituale, da se stessa o dalla condizione di malattia. Ricordo la storia di Annetta, una donna di 68 anni, semplice, fisicamente minuta, sola, che aveva lasciato da giovanissima il suo paese di origine in Sardegna per venire a Roma, “nel continente”, per lavorare umilmente al servizio di ricchi borghesi. Annetta si ammalò di cancro. Visse sei lunghi anni con le sofferenze dovute a questa malattia e a diciannove interventi chirurgici che, diceva Annetta, le avevano fatto diventare il busto fino all’inguine come una carta geografica, più chissà quanti cicli di chemioterapia. Ebbi in dono dalla mia vita professionale l’opportunità di accompagnare questa donna per tre anni, fino alla morte. Più volte mi chiedevo quale significato avesse per lei la vita, me lo chiedevo in silenzio, dopo ogni visita a domicilio e dopo ogni telefonata e me lo chiedevo anche insieme a Marinella, a Giancarlo, a Esterina, ad Anna, i volontari che le facevano compagnia e umanizzavano le sue giornate. Annetta si lamentava dei suoi dolori nei primi cinque minuti dell’incontro e poi affrontava altri argomenti, si preoccupava sempre per la salute… di chi l’assisteva. Dichiarava di volere bene a tutti i suoi “angeli”: per la prima volta nella sua vita si sentiva circondata da persone che si prendevano cura di lei in modo autentico. Annetta traeva il suo “sentirsi importante” paradossalmente proprio dalla condizione di grave malattia. Ricordo che dopo qualche settimana che ci eravamo conosciuti decidemmo di passare dal “lei” al “tu”, ma voleva che io le dessi del tu, mentre lei non poteva farlo con “un dottore” e voleva continuare a darmi del lei. Si convinse solo quando le dissi che, stando così le cose, anch’io avrei continuato a darle del lei. Questo episodio le donò una gioia profonda, per lei aveva un significato personale e di rivalsa dare del tu a un dottore! Annetta trovò nel cancro un senso per la propria vita, il dolore la torturava, ma i suoi gemiti composti richiamavano tanto amorevole calore umano da parte di chi si prendeva cura di lei e che ricompensava con un’infinita serie di «ti voglio bene, sei un angelo, il mio angelo».
Prendersi cura nel sollievo e del sollievo
Spesso accade che i riflettori puntati sulla sofferenza si spengano o si volgano altrove quando inizia a comparire quello spiraglio di luce che è il sollievo. Questa luce è però in molti casi debole, fioca, oppure molto intensa e di breve durata. La cura globale della sofferenza dovrebbe includere anche la fase del sollievo, soprattutto al termine della vita. Prendersi cura del sollievo dalla sofferenza non è qualcosa di diverso dalla cura del dolore e della sofferenza. Sofferenza e sollievo sono due dimensioni di una stessa condizione esistenziale. Prendersi cura del sollievo è il completamento e il consolidamento del “prendersi cura”; trascurare ciò sarebbe come evitare di consolidare e fissare col fuoco in un forno le forme armoniose che un blocco di argilla ha ricevuto dalle mani di un artista o di un artigiano. Il risultato può essere un’opera ben riuscita, ma senza la cottura nel forno rischia di frammentarsi e di tornare polvere al minimo urto. Prendersi cura della persona che prova sollievo vuol dire aiutarla a “valorizzare” al massimo questo vissuto, cioè ad attribuirgli un valore (soggettivo o culturale) che possa caricarlo di significato, sperimentandolo a fondo nel qui ed ora in contrasto con la sofferenza che passa sullo sfondo, senza negarla perché dialetticamente è dalla stessa sofferenza che deriva il sollievo e il suo significato.Curare il sollievo è innanzitutto educare la persona a riconoscere, accogliere e valorizzare questo vissuto. Molto spesso mi capita di aiutare la persona sofferente a imparare a non svalorizzare il sollievo considerandolo impossibile, e quindi accompagnarla nel rendersi consapevole che esso è sempre possibile e, quando esso dovesse manifestarsi, a focalizzarlo, valorizzarlo, fissarlo. Mi accorgo della “ineducazione” o difficoltà a vivere il sollievo quando, pur presente questo vissuto, la persona dice ad esempio: «sìdotto’, vabbè, sto un po’ meglio, ma questo non è star bene, non sono mica guarito»; oppure: «…tanto poi il dolore ritorna!»); oppure, introducendo “scaramantici” pensieri che impediscono la stessa espressione e condivisione sociale del sollievo, sento dire :«Dottore, non lo voglio manco dire, ma forse mi sta passando…». Ogni cura (e quindi prendersi cura), che sia del sollievo o del dolore, di una malattia come di una sofferenza, prende le sue mosse dall’attenzione. “Curare” significa etimologicamente“osservare”, “guardare”; “stare attenti” in un modo particolare, ac-curato, cauto, premuroso, accorgersidi una realtà oggettiva, ma anche delle sue sfaccettature e significati. In lingua siciliana (Palermo in particolare), l’ingiunzione sta accura! è utilizzata per mettere sul chi va là, allertare, espressione sostanzialmente simile al napoletano statte accorte, alla lettera“stai accorto”. Benedetto XVI nel suo Messaggio per la quaresima del 2012 fa riferimento a questo significato di attenzione citando il verbo greco Katanoeinche compare nella Lettera agli Ebrei (10,24): «katanoein, significa osservare bene, essere attenti, guardare con consapevolezza, accorgersi di una realtà. Lo troviamo nel Vangelo, quando Gesù invita i discepoli a “osservare” gli uccelli del cielo, che pur senza affannarsi sono oggetto della sollecita e premurosa Provvidenza divina (cfrLc 12,24), e a “rendersi conto” della trave che c’è nel proprio occhio prima di guardare alla pagliuzza nell’occhio del fratello (cfrLc 6,41). Lo troviamo anche in un altro passo della stessa Lettera agli Ebrei, come invito a “prestare attenzione a Gesù» (3,1). Dunque primo passo della cura del sollievo è esercitare una attenzione ac-curata accorgersi di esso o aiutare la persona ad accorgersene. Non sempre accade, sia per alcune barriere cognitive sopra esposte o anche perché il sollievo può essere anche poco intenso o di breve durata, a volte nasce e si esaurisce nell’arco di un respiro. Individuata la presenza del sollievo da parte di chi se ne prende cura (ad esempio la persona ha appena smesso di piangere, ha emesso un grande sospiro liberatorio, ha sorriso,ecc.) occorre poi richiamare l’attenzione della persona e focalizzarla sul sollievo qui ed ora, ad esempio con la classica domanda: “come ti senti”? “come stai adesso?”, “come va?” Poi si approfondisce la focalizzazione cercando di aiutare la persona a descrivere questo stato, a raccontarlo (“e com’è per te stare meglio?”), a portare l’attenzione sul piacere, su qualsiasi emozione piacevole lo accompagni e caratterizzi. Infine è importante che al fine di prendersi cura del sollievo esso venga rinforzato, fertilizzato, valorizzato e celebrato. Il sollievo lo si può rinforzare o rafforzare o fissare attraverso espressioni verbali e non verbali di gioia, lode, sottolineandone la positività e i benefici che ne derivano (“ecco, adesso che sta meglio può giocare con i nipotini”) per facilitarne anche la memorizzazione.Importante in questa fase della cura fertilizzare il sollievo ossia capacitarlo, fare in modo che esso possa non solo essere più un vissuto piacevole di affrancamento dalla/nella sofferenza, ma anche diventare un fattore catalizzatore di azione (“e ora che sti meglio cosa fai?”) e di speranza. In questo senso curare il sollievo vuol dire anche curare la speranza e la capacità di sperare in modo realistico, ossia costruire una speranza fondata su realtà pregresse di sollievo. Ricordarsi del sollievo passato, o aiutare a farlo, aiuta a sperare in modo concreto nel sollievo futuro.Valorizzareil sollievo vuol dire assegnare a questo vissuto un valore sia personale sia etico o sociale. Nella carta dei valori della Fondazione Ghirotti, ad esempio, compare anche il sollievo. Come tutti i valori anche il sollievo può orientare azioni, ispirare progetti, modellare atteggiamenti. Se il sollievo è un valore allora con avrà più un posto secondario nella cura, ma sarà esso stesso oggetto di cura e degno di essere custodito e protetto. La valorizzazione del sollievo può attuarsi anche celebrandolo. La storia e le culture universali sono densamente trapunte di celebrazioni di sollievo attraverso rituali, ricorrenze, manifestazioni di popolo, sollievo da terribili epidemie, da guerre, da carestie, da siccità. Molte feste, commemorazioni, solennità nazionali rappresentano le rievocazioni e celebrazione di sollievo socializzato: per una liberazione (25 aprile), una vittoria (4 novembre), un “passaggio”/resurrezione (Pasqua), la fine di una epidemia (il 21 novembre a Venezia si festeggia, dal 1630, la fine della pestilenza e chissà se un giorno celebreremo la fine della pandemia di Covid19). Gli esempi di sollievo valorizzato e socializzato attraverso la sua celebrazionesono davvero tantissimi, sia a livello di una società, sia di comunità o di piccoli gruppi umani. Per restare sul piano sociale è doveroso citare una celebrazione particolare non già rievocativa di un sollievo vissuto collettivamente, ma celebrazione del sollievo in sé come affrancamento dal dolore bio-psico-sociospirituale è laGiornata nazionale del sollievo che in Italia si celebra l’ultima domenica di maggio di ogni anno. La Giornata è promossa dalla Fondazione Nazionale Gigi Ghirotti, dal Ministero della Salute e dalla Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome e si avvale del sostegno dell’Ufficio per la Pastorale della Salute della Conferenza Episcopale Italiana. Fu istituita nel 2001 con direttiva del presidente del Consiglio dei Ministri per «promuovere e testimoniare, attraverso idonea informazione e tramite iniziative di sensibilizzazione e solidarietà, la cultura del sollievo dalla sofferenza fisica e morale in favore di tutti coloro che stanno ultimando il loro percorso vitale, non potendo giovarsi di cure destinate alla guarigione». Nel corso degli anni il significato della Giornata è andato ampliandosi, abbracciando tutte le condizioni di malattia ed esistenziali che comportano sofferenza, pur mantenendo un posto di rilievo la fase terminale della vita. Anche a livello del singolo individuo un modo sano di vivere il sollievo (e di prendersene cura) è celebrarlo. Gigi Ghirotti, giornalista che fu cronista della sua stessa vicenda di malato di linfoma di Hodgkin durante i ricoveri in vari ospedali pubblici tra il 1972 e il 1974, un bel mattino, in ospedale, sentendosi bene, pur non essendo un credente cristiano,ma neppure si definiva ateo, volle celebrare il suo sollievo in modo solenne con un canto gregoriano, il Veni Creator Spiritusche intonò quel giorno in corsia insieme a due seminaristi volontari che facevano un po’ di compagnia ai degenti; un inno allo Spirito Santo che in un’antica preghiera è invocato giusto come “dolcissimo sollievo”. Celebrare non necessariamente vuol dire festeggiare, giubilare, l’etimologia ci dice che una delle possibili origini di questa parola è “frequentare”, “abitare”. Dunque celebrare il sollievo vuol dire viverlo, accoglierlo nella coscienza e lasciare che la frequenti; significa farlo abitare in noi quando si manifesta e al tempo stesso condividerlo, anzi “conviverlo”, viverlo insieme ad altri che magari sperimentano un sollievo simile o che rispondono empaticamente a loro volta con il sollievo o che possono apprendere da chi lo manifesta a riconoscerlo, accoglierlo,viverlo e… prendersene cura.
Bibliografia
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